Storia

La storia ecclesiastica

La fondazione della chiesa di S. Silvestro è da ritenersi senz’altro antichissima, anche se mai è stato possibile determinare una datazione sicura.

Sappiamo dagli storici della Chiesa trevigiana che i monaci nonantolani di S. Maria Maggiore di Treviso, nell’888, scapparono dalla città sottoposta al saccheggio delle orde degli Ungari e presumibilmente si rifugiarono presso il loro possedimento di Selva.

  1. Silvestro di Selva fu, infatti, fin dall’inizio, chiesa e successivamente parrocchia retta dai monaci benedettini nonantolani di S. Maria Maggiore di Treviso.

La scelta del patrono stesso, S. Silvestro I papa, deriva dalla titolarità della casa madre di questo ordine benedettino: l’abbazia di S. Silvestro di Nonantola (Modena).

Volendo proprio arrivare ad una datazione di riferimento, si potrebbe citare un ampio arco temporale che abbraccia i secoli VIII e IX d. C.

Il primo documento scritto che cita S. Silvestro, S.Cecilia, S. Nicolò, S. Vitale, è ben posteriore: la bolla papale di Eugenio III che elenca le filiali della pieve di Volpago.

Nel 1341, S. Sivestro di Selva, S. Cecilia di Lavaio e S. Nicolò di Arson furono riunite in una sola parrocchia di giurisdizione dei monaci nonantolani e quindi non facente parte della diocesi di Treviso, dando inizio a secoli di diatribe con l’autorità vescovile.

Selva, Lavaio, Arson e Castagnè erano ciascuna quattro comunità ben distinte che si riconoscevano in un ambito territoriale ben definito che faceva capo ad una chiesa con un proprio santo patrono:
Silvestro per Selva
S, Cecilia per Lavaio
Nicolò per Arson
Vitale per Castagnè

Forse risale all’unificazione delle tre “cappelle” in un’unica parrocchia l’istituzione della festa della S. Croce che è la vera festa del paese. Sembra di capire che ogni comunità abbia ”rinunciato” al proprio santo patrono e si sia convenuto di affidarsi religiosamente al simbolo unificatore della S. Croce.

Carlo Agnoletti, autore di “Treviso e le sue pievi” ( Treviso, 1871 ) ipotizza che la fondazione di S. Cecilia di Lavaio fosse anteriore a quella stessa di S. Silvestro e che il toponimo “selva” fosse ben più adatto alla località dove fu costruita la chiesa di S. Cecilia. Chiesa, è opportuno sottolinearlo, sorta sulle rovine e con i resti di una “domus rustica” di epoca romana. ( I sec a. C. / I sec. d. C.). Questa chiesa, che conteneva anche un secondo altare dedicato a S. Lucia, con alterne vicende, durò grosso modo un millennio fino alla metà del XVIII sec. quando ormai cadente ed irrecuperabile fu definitivamente abbandonata. Il sito divenne area cimiteriale poi dismessa a metà’800. Ora solamente un angolo di sassi scalcinati, in mezzo ai campi indica l’ubicazione di S. Cecila di Lavaio.

Nicolò di Arson sorgeva molto addentro nel bosco ( presumibilmente nei pressi dell’incrocio della Presa IX con la VIII ). Nel 1591 l’intero Montello fu demaniato dalla Serenissima e progressivamente trasformato in un bosco di puro querceto, operazione questa che ha cancellato ogni traccia di edifici antichi nel bosco. S. Nicolò era invocato contro gli incendi che, in un ambiente boschivo e avaro d’acqua dovevano essere frequenti. Per “rinforzare” la protezione si aggiunse anche S.Antonio Abate, localmente chiamato “S. Antoni del fogo”, non tanto per la caratteristica eruzione cutanea, quanto come riconosciuto protettore contro gli incendi, soprattutto nelle stalle. Abbiamo documentazione scritta delle vicende della comunità di Arson che richiedeva un prete stabile,( che mai veniva concesso.). che subì anche una scomunica per le fattive e “devastanti” proteste.

S.Vitale di Castagnè, a cui si aggiunse posteriormente S. Biagio, fu dal suo inizio dipendenza del monastero di Lovadina. Anche questa chiesa fu del tutto demolita nel XVIII sec. e Castagnè divenne a tutti gli effetti parrocchia di Selva. Volendo localizzarla abbiamo alcune indicazioni di Alessandro Saccardo che parlando circa un secolo dopo il suo abbandono (1850) la descrive come “appena dentro la Brentella, di fronte le case dei Mussato”, al centro di un’area leggermente ondulata.

Per completare il quadro dei santi protettori delle varie ripartizioni territoriali è da segnalare che con l’introduzione della coltivazione del mais anche la “campagna”, fino ad allora destinata alle sole coltivazioni, cominciò a vedere l’insediarsi di famiglie- ceppo che, nel corso dei secoli, svilupparono la popolazione locale. La famiglia veneziana dei Tron, che in questo periodo divenne proprietaria di un latifondo, aveva una cappella dedicata a S. Rocco ( che dal XV secolo aveva sostituito S. Sebastiano come protettore soprattutto contro la peste) cui facevano capo per le pratiche religiose sia i fedeli della Campagna dai Beuni, sia quelli della Campagna di Tesi. Tesi, soprannome locale dei De Marchi che nutrivano un culto familiare per S. Rita che s’aggiungeva alla patrona S. Elena.

La chiesa negli anni

La parrocchia, costituitasi nel 1361, di diritto nonantolano, passò, nel 1462, di diritto dei Canonici di S. Agostino di Venezia il cui abate, nel 1530, provvede a consacrare la chiesa, forse dopo lavori di riordino ed allargamento.

Poco più di un secolo dopo, 1554, la parrocchia passa di diritto dei Canonici di S. Maria Maggiore ed entra definitivamente a far parte della diocesi di Treviso.

Nel 1635 un’altra consacrazione fa presupporre altri lavori di ampliamento e ristrutturazione. Viene registrata la presenza di “tele di grande considerazione”, ma non si nominano né i pittori, né i soggetti dei dipinti.

Dopo il 1770, i Canonici di S. Maria Maggiore, ridotti a scarso numero, furono soppressi e il “jus” della parrocchia di Selva fu acquistato all’asta dalla nobile famiglia veneziana dei Querini – Stampalia.

La nuova consacrazione del 1779 suggerisce ennesimi lavori di riassetto e ripristino.

La famiglia “jus patrona” nomina i parroci fino ad inizio ‘800 quando con la scelta quale vicario, prima e poi parroco, di don Giovanni Saccardo la nomina diventa di diritto vescovile.

Don Giovanni Saccardo merita una particolare menzione. Diventa parroco del suo paese natale all’età di e regge la parrocchia per 57 anni. Appartiene ad una nobile e ricca famiglia. E’ uomo di cultura con l’aggiunta di un gusto raffinato per le cose belle. Ha giuste frequentazioni veneziane ( a Venezia tuttora esiste un ramo della famiglia). Vive in quell’epoca di dismissioni napoleoniche che vede la soppressione di centinaia di chiese, monasteri, patrimoni religiosi che vanno ad immettere sul mercato una frantumazione di edifici ed una varietà incredibile di arredi sacri che vengono stimati e comprati a peso dagli acquirenti. Ciò va premesso per capire come Don Saccardo riesca a “portarsi a casa” il dossale dell’altar maggiore e le due cattedre abbaziali della distrutta Certosa del Montello, il sontuoso altar maggiore dell’abbattuta chiesa veneziana di S, Secondo in Isola, quattro altri altari di marmo da altrettante demolite chiese veneziane, per non parlare di bronzi, angeli, dipinti, pavimentazioni, acquasantiere e quant’altro, più una ricchezza di arredi sacri, paramenti, vasellame, argenti che fanno dire ad uno storico della Chiesa trevigiana: “ se di solito le chiese della diocesi di Treviso sono povere di arredi sacri quella di Selva ne è strabocchevole ”; e Alessandro Saccardo nel suo manoscritto (1850) registra : “Egli non badò mai a dispendio per radunare le spoglie di chiese demolite, e comperò altari, marmi, bassorilievi, pitture e bronzi per adornare la sua chiesa. Che le molte chiese di tali oggetti difettano, questa forse ne ha soverchi”.

Egli dà alla chiesa di Selva un assetto definitivo che potrebbe essere così descritto. Chiesa ad un’unica navata con soffitto e pareti decorati a stucco. Sul soffitto di navata e coro sono stati incorniciati gli affreschi di Jacopo Guarana, sulle pareti le tele di Scuola Veneta che ha scelto a Venezia. In fondo all’abside è stato innalzato il magnifico dossale della Certosa al quale è stato addossato il fastoso altare di S. Secondo. Gli stalli del coro iniziano con le cattedre abbaziali e continuano con gli altri, eseguiti a stucco nello stesso stile. Sopra, tre per parte, i sei grandi teleri con le storie di Mosè. Nella navata i quattro altari di marmorei, sempre di provenienza veneziana, e tutta una profusione di marmi e dipinti che nell’insieme danno una di dimensione di ricchezza artistica impensabile in una chiesa di campagna.

Introduzione 

Alla morte di D. Plateo il jus patrono nomina il vicario D. Giovanni Saccardo nuovo parroco, che senza indugi comincia a far fronte ai problemi insoluti; e visto che nella congrua era conteggiata la canonica, ormai fatiscente ed inservibile, dal momentoche il Quirini non se ne curava, chiamò due periti e mandò il loro referto ala Curia e alla Prefettura di Treviso. La Prefettura rispose che era compito del jus patrono, ma questi non volle intendere ragioni, nè la causa intentata contro di lui sortì qualcosa di pratico.

Saccardo decise allora di erigere una nuova canonica contando sulle possibilità sue e del paese. Fu acquistato materiale di risulta da altre costruzioni demolite e con ciò fu eretta la nuova canonica.

Cronistoria

Con il 1801 i francesi ritornarono in Italia per fronteggiare gli austriaci responsabili di non aver ancora estinto i debiti di guerra. Fu un anno assai travagliato per le nostre popolazioni vessate dai soprusi delle delle truppe francesi che distruggevano, rubavano, saccheggiavano, senza risparmiare le chiese. Nel Gennaio la chiesa di Selva fu violata e spogliata di raffinati vasi sacri e di fini paramenti, salvandosi, provvidenzialmente, la Croce Capitolare del XIII sec. e quella astile perché sempre conservate segretamente. Non appena si fu provveduto al riacquisto degli oggetti rubati, a metà marzo un altro furto privò la chiesa di ciò che con sacrifici si era procurata. Si ritornò ad acquistare; dal generale Serurier si comperò l’ostensorio d’argento per la bellezza di 370 lire venete, raccolte in un sol giorno dalla questua fatta dal parroco.

Verso la fine di questo doloroso anno, per riportare un po’ di serenità e di fiducia nella Divina Provvidenza fu indetta la Solenne Missione tenuta da un illustre predicatore del tempo il Canonico Mozzi di Bergamo il quale alla fine della sua predicazione istituì, in paese, la Congregazione Mariana, dotata di statuto e cariche, nell’oratorio della Purità presso il palazzo Petropoli.

Non riusciendo l’Austria ad estinguere i debiti di guerra nè a fronteggiare gli avversari in Veneto ritornò sotto il dominio di Napoleone il quale nel 1805 proclamò il Regno Italico. Dopo quattro anni riprendono le ostilità con l’Austria concluse con la firma di un armistizio duraturo fino al 1813. Con la Legge Italica del 1811 Il Montello diventa proprietà demaniale; vengono abolite le suddivisioni territoriali e costituite di nuove.

Selva perde la sua dipendenza secolare e passa alle dipendenze di Volpago.

L’odierna suddivisione amministrativa del comune di Volpago è fondata sull’insipienza napoleonica ignorante delle vicende storiche ed umane.

Allo scadere dell’armistizio Napoleone riprese le armi e se le prime battaglie furono a suo favore, con la sconfitta di Lipsia cominciò il suo declino. Il 20 aprile 1814 partirà per l’esilio dell’Elba. Il Congresso di Vienna assegnò il Veneto con la Lombardia all’Impero Austro Ungarico.

Doppo i moti risorgimentali iniziati con il 1848, uno dei cui protagonisti locali fu il nostro Luigi Pastro, con il 1866 il Veneto viene annesso al Regno d’Italia.

I particolari

Una legge del 1806 decretò la demaniazione dei conventi, l’abolizione delle Scuole, la confisca di tutti i beni loro appartenenti, la sopressione di tante chiese.

Questo provocò la requisizione e conseguente demolizione della Certosa del Montello (vedi “La Certosa”). Da qui il 30 maggio 1812, pagando complessivamente 257 lire italiane furono traspostati:

– il pregevole alzato dell’altare maggiore;

– le due cattedre (ora agli amboni);

– la colonna con il suo basamento a gradini e la croce che era nel cimitero fu collocata nel cimitero parrocchiale.

Altre opere furono portate a Selva da varie chiese del Veneto:

– i due angeli sui pilastrini;

– il paliotto con il ciborio e le due statue di S. Domenico e S. Rosa;

– le pavimentazioni delle chiese veneziane S. Trinità e S. Stefano;

– il lavabo e i due cherubini;

– altari completi e altre opere ora distrutte furono portate dalle chiese di S. Agnese e S. Severo e dalla chiesa dell’Ascensione;

– le ue pile ora alla porta centrale portate da quella di S. Margherita;

– due statue bronzee (S. Pietro e S. Paolo) successivamente vendute;

– due angioli in bronzo e la statua seicentesca dell’Immacolata in marmo di Carrara ora in cripta;

– la tavola trecentesca, greco-bizantina, della Madonna delle Grazie proveniente dal convento di S. Martino di Murano;

– il corpo di San Mansueto fu donato dal convento dei SS. Marco e Andrea di Murano;

– infine vennero procurati numerosi paramenti sacri il cui termine per definirli era “fulgore” per lo sfavillio di fili d’oro impiegato nella tessitura.

Nel 1835 si pensò di rifare l’organo perchè ormai quello vecchio, dopo aver subito numerosi restauri, era in deperimento; per cui dopo aver raccolto, in due anni, la somma opportuna fu invitato il prof. De Lorenzi di Vicenza col quale si concluse il contratto per 8000 lire venete, pagabili in quattro rate, e cedendo il vecchio organo, opera di un certo Tesia di Padova verso il 1774.

Anche il cimitero attorno alla chiesa era ora insufficiente per cui nel 1846 si consacrò quello nuovo adiacente alla tenuta degli Anselmi.

Nel 1875 si fondono tutte e tre le campane, una delle quali s’era fessa e le altre erano logore. La ditta Colbacchini di Bassano fornisce i nuovi tre bronzi che suoneranno per la prima volta il 21 novembre tra una festa del popolo.

Con il parroco D. Luigi Pamio la Fabbriceria vende il 23 Agosto 1877 le due statue bronzee dei SS. Pietro e Paolo, per far fronte ad alcuni oneri finanziari.

Con la nomina di D. Domenico Bettamin cessa la norma del jus patronato e da allora la nomina del parroco di Selva diventa di collazione vescovile.

I particolari

 

Parlando di Selva è impossibile non riandare, con la mente, a questo edificio famoso, alcuni “pezzi” del quale, e forse i più cospiqui, sono visibili nella parrocchiale e ci possono dare una pallida idea di quello che doveva essere quel monastero.
Tolberto e Schinella di Collalto, nello stesso anno in cui persero il castello di Selva, fecero posare le prime pietre di un modesto edificio monacale, che con il passar dei secoli si svilupperà con numerose altre costruzioni articolate, però, in un tutt’uno armonico e funzionale.

Dalla nascita alla distruzione

Tralasciando la leggenda, questa descrizione parte da quando i Certosini accettarono di usufruire di questo monastero che veniva loro offerto.

Ai Collalto spettò il titolo di “fondatori” perchè oltre ad esserlo materialmente, contribuendo con successive donazioni di terreni e rendite, provvidero al suo mantenimento.

In seguito anche la Repubblica di Venezia usò clemenza con questa Certosa. Dal 1428 fu esentata da ogni imposta in segno di riconoscenza per i buoni uffici del Certosino Nicolò Albergati, mediatore della pace conclusa quell’anno fra il governo veneto, milanesi e fiorentini; e la risparmiò nel 1760 quando furono soppresse due delle quattro delle certose venete.

Vasti e disposti secondo la prassi certosina erano gli edifici che la formavano. Ci si può rendere conto ammirando le due vedute d’insieme, una incisa su rame da A.Bosio su disegno di G. Cortesi con ogni cenno sulla destinazione degli edifici; l’altra facente parte di una serie di vedute di certose disposte da un Capitolo Generale, che sono tutto ciò che rimane per congetturare.

Nel mezzo delle varie costruzioni sorgeva la chiesa, con l’elevato campanile di stile veneto, consacrata nel 1396 dal Patriarca di Costantinopoli Angelo Correr. Era dedicata alla Vergine Maria e a S. Gerolamo. Aveva quattro cappelle in onore dei Santi Angeli, dei Santi Pietro e Paolo e di San Giovanni Battista.

Quello che resta presentemente della Certosa sono proprio le opere che erano nella chiesa ed ora si trovano sparse nelle varie parrocchie del Montello.

Descrizione

Accanto alla chiesa a nord il cimitero con la colonna su un piedistallo a gradini, e a sud la sala del Capitolo, poi il Refettorio che separava due chiostri provvisti di pozzo. Davanti alla chiesa un altro piccolo chiostro e quindi quello di ingresso con una magnifica scalinata di marmo che raggiungeva un loggiato che immetteva nella priorìa. Su questo questo chiostro, a doppio ordine di archi, s’affacciavano, al piano superiore, le stanze della foresteria, dove venivano ospitati insigni personaggi, studiosi, regnanti, che si recavano a visitare la Certosa, da una parte; e dall’altra le residenze del P. Procuratore e del P. Coadiutore; al pianterreno, invece, erano sistemati l’alloggio del P. Portinaio, i vani della farmacia ed altri locali di servizio.

Il grande portone d’entrata si apriva su bell’atrio con loggia adornata.

Oltre alla chiesa s’allargava il chiostro maggiore, costruito a volte, a somiglianza di quello pavese, sul quale s’aprivano le porte delle celle dei padri, isolate e solitarie, ognuna con l’orticello ben curato. Ogni padre viveva per conto suo nella propria abitazione che comprendeva la cameretta di riposo, lo studiolo, un angolo per le orazioni e la stanza principale con il caminetto. Il P. Priore aveva un’abitazione distinta dalle altre, più vasta e ricercata.

Nella parte orientale erano gli edifici per i famigliari ed i conversi, gli ambienti domestici; cucine, cantina, lavanderia, barberia, laboratori per vari lavori e riparazioni; attorno ad un largo cortile quadrato, nel quale ci si immetteva attraverso una porta carraia, trovavano sistemazione le stalle bovine, equine ed ovine, la colombaia, altri ripari per altri animali da cortile, il fienile, la legnaia.

Nella parte occidentale trovarono posto le varie colture di ortaggi, il frutteto, l’ampia vigna con i bei pergolati.

Tutto il muro perimetrale, costituito di blocchi di croda squadrati, isolava la Certosa dalle praterie e boschi circostanti. Un angolo di tale muro è tutto ciò che resta in quel luogo. Dieci ettari di terreno circostante erano proprietà della Certosa, qui erano le fornaci per calce e laterizi.

Aveva pertinenze a Giavera e a Nervesa fra cui i mulini per macinare farine e spezie.

A Treviso, Carbonera, Onigo, Tarzo, Trebaseleghe, Malamocco disponeva di case sussidiarie.

Notizie e avvenimenti

Certe notizie sussidiarie riguardanti le vicende di questa Certosa possono essere desunte da un codice membranaceo, ora al Museo Correr di Venezia, “Chronica Domus seu Monasterii Huis Montelli, Cartusiensis ordinis” compilato in latino, Dal Certosino Antonio De Macis di Chiarenza.

Cronaca che arriva fino al 1419. Si danno notizie di vari benefattori, tanti nobili veneziani, ma anche d’ogni dove, che elargivano somme per la costruzione delle cassette monastiche, per le pavimentazioni marmoree dei chiostri ecc.; di studiosi e uomini illustri che vi soggiornavano.

Anche Napoleone fu ospitato alla Certosa, forse quando erano già nel’aria certi provvedimenti posteriori, dimostrando -si dice- benevolenza per questa Certosa. Ma la legge del 1806 non risparmiò certo la Certosa del Montello. Fu confiscata e nel 1809 messa all’asta.

Invano i conti di Collalto cercarono di salvarla da sicura rovina, esibendo una considerevole somma. Fu aggiudicata a Gaspare Novello detto Franchidoro, allora sindaco di Selva, che con accanimento volle rilevarla appositamente per demolirla e ricavare un appezzamento per farvi crescere un boschetto. La tradizione vuole che mai alcuna piante attecchì in quel terreno.

In tal scempio Selva si procurò marmi tuttora presenti nell’odierna chiesa.

Franchidoro pur di far piazza pulita vendeva anzi svendeva ogni cosa e pregava la gente che andasse a prendersi pietre, marmi, colonne, capitelli purché gli sgombrassero il suolo. Sembra che diverse case sul Montello siano sorte usufruendo di questi preziosi materiali murati nelle fondamenta e nelle pareti.

D. Saccardo narra che si recò alla diroccata Certosa Il giorno in cui si atterrava il campanile per ordine di Franchidoro, naturalmente, che tutto fiero seguiva i preparativi. Il campanile fu puntellato, si provvide a smantellarne un angolo quindi fu dato fuoco ai puntelli. La torre si rovesciò tutta d’un sol pezzo sul cimitero. Franchidoro salutò lo spettacolo con queste parole testuali: -Tocchi de mostri de frati ades son contento che vò butà el campanil sula panza-.

Dopo alcuni anni, perché il cimitero non fosse profanato, le salme dei 138 certosini ivi sepolti furono fatte esumare dal parroco di Giavera che le traspostò nella parrocchiale dove fu eretta una cappella in loro memoria.

Attualmente della Certosa non resta pietra su pietra e nemmeno a recarsi sul luogo; ora chiamato “ai frati” si ha la capacità di raffigurarsi solo mentalmente la disposizione dei vari settori conventuali.

Non resta più nessuna traccia neanche del tempietto, nella “valle dei tre fonti”, eretto all’imboccatura di uno speco, nella roccia, dedicato a S. Gerolamo La cui venerazione in questo luogo è da ritenersi anteriore alla fondazione della Certosa stessa. Qui a frotte le genti del Montello venivano l’ultimo giorno di settembre in pellegrinaggio. Dopo le pregjiere ed aver bevuto, per pia tradizione, alla fonte, tiravano fuori da ceste e fazzoletti pani e altre vivande e bevevano vino spillato da zucche usate come bottiglie.

I monaci si mescolavano alla gente perché era un giorno di gran festa; si cantava, si suonava fino a sera e poi, magari un po’ brilli, tutti a casa. Anche questo cessò quando i certosini furono cacciati.

La chiesa vecchia

Se c’è una ferita nella storia del nostro paese è proprio quella della distruzione della millenaria chiesa di Selva a causa della tragica tromba d’aria del 24 Luglio 1930.
Alla furia delle forze atmosferiche aggiungiamo la violenta decisione di costruire una chiesa nuova altrove e completiamo con la sconsiderata vendita di quel lembo di terra, dimora delle nostre più care memorie.
Per noi che la vediamo solo in immagini sfocate, la vecchia chiesa resta un edificio di cui giustamente si può dire meraviglie, uno scrigno nel quale erano rinchiusi capolavori d’arte.

Foto della chiesa dopo la tromba d’aria del 24 Luglio 1930.

 

SCHEDA TECNICA:
Basamento: a grossi blocchi di pietra pedemontana
Canna: in solido laterizio
Orologio: monosfera, bloccato sulle 13.08
Cella campanaria: alla veneta
Tamburo: ottagonale, traforato
Copertura: a cipolla (molto più frequente nel bellunese
Croce cuspidale: pomellata

Il campanile

 

Foto con il storico campanile ancora in piedi.

Il campanile, per ogni paese, diventa il simbolo stesso del carattere di quel centro abitato tanto che popolarmente viene indentificato come “el paron de casa”.
Dalla foto appare chiaro l’orribile squarcio provocato dalla tromba d’aria che ha distrutto l’intera navata, lasciando in piedi facciata e presbiterio.
Facciata che mostra le quattro colonne a capitelli corinzi e il frontone del timpano, provenienti dalla spogliata facciata di S. Boldo di Venezia e le due statue nelle nicchie (S. Silvestro e S. Biagio) sempre acquistate dalla dalla demolia certosa di S. Andrea a Venezia.

SCHEDA TECNICA:
Basamento: a grossi blocchi di pietra pedemontana
Canna: in solido laterizio
Orologio: monosfera, bloccato sulle 13.08
Cella campanaria: alla veneta
Tamburo: ottagonale, traforato
Copertura: a cipolla (molto più frequente nel bellunese
Croce cuspidale: pomellata

L’altar maggiore

 

Foto rappresentante il vecchio altare prima della caduta della chiesa.

L’altare era, e lo è tuttora, la risultante di due diversi altari accostati l’un l’altro.
Il primo altare, quello con la mensa, le due statue di S. Domenico e S. Rosa, opere del Torretto, e l’ipareggiabile ciborio, proviene dalla chiesa veneziana di S. Secondo in Isola, ora del tutto scomparsa.
Il secondo altare, senza la mensa, è il famoso altare della Certosa del Montello ricomposto tale e quale nella chiesa di Selva senza però i tre dipinti collocati nell’arcone centrale e nelle due cornici marmoree laterali.
Si provvide, quindi, ad inserire nei vuoti, al centro la pala di S. Silvestro che battezza l’imperatore Costantino già appositamente dipinta da Vincenzo Guarana nel 1791 per la parrocchiale di Selva e lateralmente si collocarono i due angeli provenienti dalla chiesa della monache Agostiniane di Murano.

L’interno

 

Veduta completa di come si presentava l’interno della vecchia chiesa.L’altare era, e Sono visibili alle pareti i quattro altari, tutti acquistati dalle demolite chiese veneziane, grandemente andati distrutti.
Un occhio attento può anche scoprire tutte quelle parti superstiti alla distruzione e ricomposte nella chiesa attuale.

La S. Croce

 

Particolare dell’affresco dipinto dal pittore veneziano Jacopo Guarana sul soffitto del coro, nel 1790.

Dello stesso pittore era il grande affresco del lacunare (termine tecnico che indica il dipinto centrale sul soffitto di una chiesa) della navata. Tradizionalmente su questo tipo di affreschi si raffigurava il Santo titolare della chiesa.
Nel nostro, oltre a S. Silvestro nell’apoteosi della sua gloria, erano stati dipinti anche gli altri Santi antichi patroni di quelle “regole” che con l’andar del tempo si erano fuse in un’unica parrocchia.

Una curiosità da segnalare è la presenza di un identico affresco, sempre di Jacopo Guarana, sull’arcone destro della chiesa di S. Martino a Venezia (vicinissima all’Arsenale).

La Sala Votiva

La foto riproduce la facciata della così detta Selva Votiva con al centro il monumento ai Caduti sormontato dalla statua della Regina Pacis.

L’Ottava di Pasqua del 1917 tutta la popolazione di Selva, stipata all’inverosimile in chiesa pronunciava un solenne voto: la costruzione di una cappella alla Madonna per ottenere la protezione sul paese durante quello che fu il più tremendo anno della 1° guerra mondiale.
Il paese fu del tutto risparmiato dalle distruzioni belliche.
Divenuto parroco D. Arcangelo Vanin, uomo di cultura e di notevole sensibilità artistica, percepì chiaramente che aggiungere una cappella all’insieme armonico della vecchia chiesa sarebbe equivalso ad introdurvi un elemento del tutto disturbante.
Per cui, con il parere della popolazione e con l’assenso del vescovo, pensò di sostituire la costruzione di una cappella con quella di una sala per le molteplici attività parrocchiali di cui era animatore, con annesso monumento ai Caduti.
Il 10 Marzo 1921 fu benedetta la prima pietra del nuovo edificio che fu inaugurato il 16 Ottobre.

La statua della Regina Pacis, opera dello scultore Cadorin di Venezia, è conservata presso un privato.

La caduta definitiva

Gli ultimi attimi del vecchio campanile.

 La foto ci mostra come come il campanile abbia retto all’urto della tromba d’aria, ma riportando insanabili lesioni di stabilità.
Sono già passati quattro anni da quel tragico pomeriggio del 1930. La nuova chiesa è già una realtà ed in essa sono state trasferite le preziose parti marmoree rimaste integre.
Si pensa, quindi, all’atterramento del campanile: è un altro “storico” pomeriggio, quello del 25 Agosto del 1934.
Nei giorni precedenti una squadra di mastri paesani ha puntellato tre dei quattro angoli del campanile, poi ha provveduto ad aprire un varco di circa un metro alla base delle tre pareti.
A mano a mano che veniva tolta la base muraria si introduceva un sistema di travature di sostegno. Completata questa prima operazione, il campanile risultava dcon la base per tre quarti traforata.
Si riempì tutto lo spazio possibile di legna molto secca e robusta, atta a sostenere un fuoco gagliardo e prolungato, tale da intaccare il sistema di travature che ormai reggeva la torre campanaria.
Già prima dell’alba del 25 Agosto fu appiccato il fuoco che arse, possente e vivace, per ore.
Testimoni oculari affermano che erano verso le due di quel rovente pomeriggio quando la croce cuspidale cominciò a dondolare. In pochi secondi, cadenzati dall’emozione che serrava la gola e dall’aspettativa che turbava il respiro, si aprirono larghe crepe sul tamburo e sulla cella campanaria e quindi quasi interamente il campanile si ripiegò su se stesso diventando un cumulo di rovine da cui sorgeva un’abbondante nube di pulviscolo calcinoso.
Dopo 230 anni di “padronansa”, essendo stato costruito nel 1704, anche del ” padron de casa” si poteva discutere solamente in fotografia.

San Silvestro


Silvestro patrono di Selva

Papa Silvestro I era un sacerdote del clero romano, probabilmente ordinato pprete da Papa Milziade al quale succedette nel Gennaio dell’anno 314.
La sua morte avvenne dopo un pontificato di 21 anni, il 31 Dicembre dell’anno 314.
I suoi resti sono ora custoditi nella chiesa a lui dedicata in Capite a Roma.

Il primo documento ufficiale che attesta il culto di S. Silvestro a Selva è una “bolla papale” di Papa Eugenio III°, del 1152.
In questi casi, però gli studiosi concordano nel ritenere che un tale documento pontificio registri ufficialmente una situazione di fatto che perdura da tempo immemorabile.
Possiamo, quindi, parlare con una certa probabilità di tempi intorno all’anno mille, tenendo anche conto delle vicende dell’abazia di Nonantola (Mo) che si intersecano con la storia del nostro paese.
Fin dal suo sorgere non è una chiesa della diocesi di Treviso, ma appartiene all’ordine dei monaci nonantoliani.
Ciò può far pensare che siano stati essi stessi a farla edificare. La supposizione trova appoggio nel fatto di averla dedicata a S. Silvestro, santo di gran venerazione nell’abazia e nell’ordine nonantolano.
La scelta di S. Silvestro come patrono trova anche una duplice spiegazione: nella dipendenza dai monaci di Nonantola e in quella abitudine, tipicamente medioevale, di abbinare un santo ad una caratteristica locale: sylva (bosco) – Sylvester.

Parlando di S. Silvestro non si può mancare di definire la figura dell’imperatore Costantino I il grande.
Nacque nell’attuale Nis (Serbia), figlio di Costanzo e di Elena (quella che secondo la tradizione scoprì la vera croce di Cristo).
In campo ecclesiastico fece indire e presiedette il Concilio di Nicea per condannare l’arianesimo: un’eresia predicata da Ario che sosteneva che il Figlio non era Dio come il Padre. La sua attenzione agli affari religiosi non era in base a scelte teologiche, ma veniva dall’esigenza di controllare la Chiesa alla quale affidava vari compiti.
Costantino morì nel 337, ricevendo il battesimo sul letto di morte (e qui la storia si oppone alla tradizione di Costantino battezzato a Roma Da Papa Silvestro – come si può notare nel quadro).

Il consiglio pastorale & consiglio per gli affari economici

Organismi attraverso i quali si attua la partecipazione e la corresponsabilità dei cristiani per l’ edificazione della parrocchia.
Loro scopo è di aiutare il parroco nella guida della comunità parrocchiale perché essa sia fedele al Vangelo e aderente alle situazioni concrete, nel dialogo fra sacerdoti, laici e religiosi, nello spirito della comunione in Cristo.

I Parroci di Selva

Rettori di Selva nominati dai canonici della Madonna Grande (1594 – 1770)

D. Antonio Bosicelli……….D. Antonio Leon
D. Alfonso Bragadin………D. Gerolamo Pulcheri
Ab. Innocenzo Fontana…D. Vittorio Baù
D. Andrea Bono……………D. Paolo Botteghini
D. Ludovico Fonzaso……..D. Giuseppe Cimegotti
D. Giacomo Parmesani

Parroci di Selva (1770 – 1930)

D. Giuseppe Cimeotti………….1770 – 1784
D. Giambattista Beltrame…….1784 –
D. Giovanmaria Plateo………………..- 1801 (1805)
D. Giovanni Saccardo..1801 (1805) – 1858
D. Luigi Pamio……………………1858 – 1882
D. Domenico Bettamin…………1882 – 1888
D. Natale Tommasini…………..1888 – 1897

I parroci del ‘900

Don Francesco De Marinsky (dal 1899 al 1919)
Durante il suo mandato parrocchiale:
fa costruire l’Oratorio di Campagna, (1905) dedicato alla Madonna del Carmine e a S. Rocco (vedi alla voce Oratori);
emette il solenne voto di costruzione di una cappella alla Vergine (1917)
la famiglia Gastaldo costruisce (1908) la “Grotta” dedicata alla Madonna di Lourdes.

Don Arcangelo Vanin (dal 1919 al 1939)
Durante il suo mandato parrocchiale:
tramuta il voto di Don De Marinsky in quello di costruzione di una Sala votiva con annesso Monumento ai Caduti, tutto realizzato nel 1921: sala per le necessità religiose e sociali della parrocchia e Monumento ai Caduti con la statua della Regina Pacis opera dello scultore Cadorin di Venezia;
dà l’ultima sistemazione, secondo arte e all’interno della chiesa mettendo nel giusto risalto le notevoli opere pittoriche presenti;
nel 1929 viene inaugurato il nuovo organo, uno strumento formidabile, con più di mille canne, adatto a tutte le solenni funzioni che Don Vanin, appassionato ed esperto di musica sacra, celebra e fa celebrare .
Assiste impietrito alla distruzione della sua chiesa il 24 luglio 1930 ad opera di una tromba d’aria che sventra l’intero edificio.(vedi voce chiesa vecchia)
Si adopera alacremente per la ricostruzione. (vedi voce chiesa nuova) Il nuovo edificio , costruito su progetto dell’architetto Fausto Scudo, viene portato a termine nel 1932.

Don Francesco Andreatta (dal 1939 al 1964)
Durante il suo mandato parrocchiale:
viene innalzato il nuovo campanile (1952);
la chiesa viene provvista dei nuovi banchi;
fa eseguire dallo scultore Moroder della Valgardena la Via Crucis e la statua della;
installazione delle due nuove vetrate con S. Pio X e S. Teresina;
sistemazione del piazzale antistante la chiesa con la collocazione delle due fontane;
ampliamento dell’Oratorio di Campagna.

Don Adelino Gatto (dal 1964 al 1996)
Durante il suo mandato parrocchiale:
provvede alla pavimentazione a porfido dell’intero piazzale
installazione di nuove porte e allestimento dell’altare rivolto ai fedeli;
cura meticolosamente la manutenzione dell’intero edificio (come la totale ritinteggiatura e la revisione del tetto);
fa eseguire la nuova urna marmorea per i resti di S. Mansueto
sovrintende ai lavori di realizzazione della nuova cappella della Casa di riposo
viene inaugurato (1975) il nuovo Monumento ai Caduti (studio arch. F. Scudo) addossato al campanile
tutela la salvaguardia dell’armonia artistica (oculati restauri e conservazione dei manufatti) della chiesa con una costante opera di rigorosa attenzione.(anche per gli Oratori di Piazza e di Campagna).

Don Umberto M. Modulo (amministratore parrocchiale dal 1997 al 1998)
Nel breve tempo di permanenza in qualità di amministratore compie un’opera altamente meritoria che resta valida nel tempo per il suo inestimabile valore religioso, sociale e culturale:
– riordina l’archivio parrocchiale, sparso in diverse collocazioni, rendendolo accessibile e consultabile;
– fotografa tutti gli arredi sacri, alcuni di grande valore artistico, presenti in parrocchia fino al 1998;
– rimette in uso suppellettili e paramenti di comprovata bellezza, da tempo non più utilizzati, dimostrando il grande patrimonio artistico che la parrocchiale di Selva possiede.

Don Marino Zaratin è stato parroco dal 1998 al 2006.

Don Luigi Dal Bello è stato parroco dal 1° Ottobre 2006 al 2016.

Don Angelo Rossi è attualmente parroco dal  1° Ottobre 2016.

Arte

L’altare

Ha la forma di “serliana” vale a dire che lo spazio é tripartito: la zona centrale è archivoltata e le due laterali, ribassate, sono architravate.
La parte centrale, nella quale è inserita la pala, è delimitata da due colonne di marmo brecciato violaceo e capitello d’ordine composito, dietro alle quali stanno due lesene con le stesse caratteristiche ornamentali, e termina con un arco a tutto sesto ornato da spicchi di marmo brecciato. La chiave di volta è rappresentata da una conchiglia stilizzata dalla quale si innestano due racemi fioriti che seguono la curvatura dell’arco.
Nelle due parti laterali sono state ricavate due nicchie nelle quali sono ospitati due angioletti su piedistallo. La composita trabeazione superiore regge due “lampade” costituite da tre sezioni decorative.
L’intera serliana poggia su un altissimo zoccolo alle cui estremità sono collocate due mensole ornate da ricchi motivi a voluta.

Materiali: Marmo bianco di Carrara e diversi altri marmi policromi.
Autore e datazione: Opera dell’architetto veneziano Giorgio Massari (1687-1766) realizzata approssimativamente intorno al 1740.
Provenienza: Dalla distrutta Certosa del Montello, dove fu comperato ( con le due cattedre ) per lire italiane duecento, nel 1812.

Gli angioletti nelle nicchie

Tenendo conto della differente posizione si possono delineare alcune caratteristiche comuni. Essi si connotano soprattutto per la formosità tipicamente barocca. Sono rappresentati in posizione eretta. Il corpo paffuto è succintamente ricoperto da un drappo smosso. Il volto caratterizzato da guance tonde è incorniciato da una plastica capigliatura a riccioli.

Materiale: Marmo bianco
Autore e datazione: Ignoto scultore veneto del sec XVII / XVIII
Provenienza: Dalla distrutta chiesa di S. Bernardo a Murano

La mensa dell’altar maggiore

Una spessa cornice superiore e un importante basamento iniziale racchiudono il pregevole paliotto a grandi girali di marmo bianco su sfondo rosso marezzato. Al centro, entro un tondo di marmo verde antico. una croce avellana. Cinque testine di cherubini sottolineano la parte conclusiva delle volute vegetali, in posizione centrale e nelle due smussature angolari.

Materiale: Marmo bianco di Carrara, marmo rosso marezzato e marmo verde antico.
Autore e datazione: Ignoto scultore veneto del sec. XVII / XVIII
Provenienza: Dalla distrutta chiesa veneziana di S. Secondo in Isola

Ciborio dell’altar maggiore

Inizia con il tabernacolo la cui porta è contornata da due angioletti inginocchiati e sormontata da un putto con il braccio alzato, seduto tra arricciature vegetali. Da qui si eleva il ciborio vero e proprio tutto di marmo bianco con preziosi e raffinati intarsi di lapislazzuli. Al centro, l’espositorio è il nucleo attorno al quale si svolge l’abilità dell’opera scultorea. Sulle ricche volute angolari sono sedute due figure allegoriche (una maschile ed una femminile) ognuna vestita secondo un proprio ricercato abbigliamento, finemente lavorate a tutto tondo. Trova completamento con una cupoletta a bulbo tutta decorata a pizzo giocato sull’elegante contrasto del marmo bianco che si rigira sullo sfondo di lapislazzuli, Sui rialzi della cornice di base della cupoletta, prendono posto due cherubini con in mano un florido grappolo d’uva.
Complessivamente un’opera fastosa dove il marmo sembra perdere la sua immobilità e animarsi nel movimento dell’eleganza barocca.

Materiale: Marmo bianco e lapislazzuli
Autore e datazione: Ignoto scultore veneto sec XVII / XVIII
Provenienza: Dalla distrutta chiesa veneziana di S. Secondo in Isola

Le statue di S. Domenico e S. Rosa

E’ opportuno premettere che le due statue, ora agli amboni , originariamente stavano ai lati dei ciborio così come nella classica struttura degli altari dei secoli passati.

S. Domenico è connotato dai simboli che figurativamente lo contraddistinguono: il libro e il cane accucciato con la fiaccola accesa in bocca. Scultura di buona mano che ancora risente di una propensione per il classicismo che si esterna nel carattere astratto del volto, ma vivacizzata da un gusto già barocco per il movimento delle vesti.

S. Rosa è presentata con il capo velato e cinto di rose, con nella mano destra il Bambino sempre contornato di rose e nella sinistra un libro. Anche in questo caso, nonostante il movimento plastico dei ricchi panneggi la statua, nell’insieme, risente di una certa rigidità.

Materiale: Marmo bianco
Autore e datazione: Statue attribuite a certo Antonio Tarsia, scultore operante a Venezia a cavallo dei sec XVII / XVIII
Provenienza: Dalla distrutta chiesa veneziana di S. Secondo in Isola

Due angioletti sopra gli accessi al coro

Ambedue sono caratterizzati da un corpo paffuto ricoperto da una cinta svolazzante, capigliatura ricciuta ed un’espressione gioiosa

Materiale: Marmo bianco
Autore e datazione: Ignoto scultore veneto del sec. XVIII
Provenienza: Dalla distrutta chiesa di S. Bernardo a Murano

Le due cattedre

Sono costituite da uno “schienale” ricavato in una nicchia dalla struttura architettonica principale.
La nicchia è decorata da fasce longitudinali di marmo bianco che si stagliano sullo sfondo di marmo verde antico e la concavità del semicatino è caratterizzata da una decorazione a petali di diaspro rosa .
Essa è incorniciata dall’architettura esterna che ripropone lo stessa espressione stilistica della parte mediana del dossale dell’altar maggiore quindi due colonne che sorreggono una composita trabeazione che regge un timpano ad arco ribassato, ritorna la conchiglia stilizzata come chiave di volta dalla quale si arcuano verso gli spigoli terminali due racemi fioriti.

Materiale: Marmo bianco di Carrara, marmo verde antico, diaspro rosa
Autore e datazione: Opere di Giorgio Massari, circa 1740
Provenienza: Dalla distrutta Certosa del Montello ( 1812 )

I due portali delle sacrestie

Sono costituiti da una cornice formata da più fasce longitudinali, affiancata da due strette lesene scure che terminano con due mezzi capitelli ionici di contrapposta colorazione chiara. Sopra una semplice architrave è collocato il timpano ad arco spezzato al centro del quale è posta una mensolina a voluta con un putto in posizione diversificata a destra e sinistra.

Materiale: Pietra e marmo
Autore e datazione: Ignoto scultore veneto sec. XVII
Provenienza: Dalla distrutta chiesa di S. Stefano a Murano.

Crocifissione

La scena è essenziale e costruita in maniera drammatica. Il dolore che emana dai protagonisti diventa il movente del pentimento in chi li guarda.
Il Cristo, inchiodato sulla croce, appare alto e sorprendente; la Maddalena è dolorosamente avvinta al legno; la Madonna e S. Giovanni sono ripresi nella compostezza del loro dolore.
Due piccoli angeli raccolgono, entro calici, il sangue che cade dalle mani trafitte dai chiodi.
Lo sfondo, tenebroso sopra la croce, si apre a tinte più chiare a mano amano che ne evidenzia la distanza.
Da segnalare, sotto il braccio sinistro della croce, una monocromia che lascia intravedere un gruppo di cavalieri.

Materiale: Olio su tela.
Autore e datazione: E’ un’opera della fase giovanile di Jacopo Robusti, il Tintoretto, e viene assegnata cronologicamente agli anni 1546 – 47.
Provenienza: Dalla soppressa chiesa veneziana dei SS. Cosma e Damiano alla Giudecca.

Madonna con Bambino

E’ un dipinto definito “alla bizantina” vale a dire con una immagine unica che si presenta frontalmente con statica solennità. La Vergine, raffigurata a mezzo busto, con il braccio sinistro regge il Bambino e con la mano destra indica il Salvatore ai fedeli. Il Bambino benedice con la mano destra e con la sinistra tiene un rotolo: il Vangelo. Il capo della Vergine accenna ad una leggera curvatura verso quello del Bambino che a lei si rivolge.
Il mantello blu, trapuntato a minuscoli ornamenti dorati, si increspa a contornare il delicato incarnato del viso. Parimenti preziosa è la tunicella del Bambino.

Materiale: Olio su tavola
Autore e datazione: Dopo l’ultimo scrupoloso restauro (1998) che ha permesso lo studio del dipinto da parte dei più autorevoli esperti di arte trecentesca veneziana è stato, con pochi dubbi, assegnato a Paolo Veneziano il più grande pittore del Trecento Veneto.( 1340 circa).
Provenienza: Fu regalata a Don Saccardo dalla badessa del soppresso monastero delle monache agostiniane di Murano.
Inspiegabilmente non viene mai citata dagli storici d’arte veneziani che, in epoche diverse, hanno descritto tutte le opere pittoriche della città. Forse si trovava nella parte di convento sottoposta a clausura.

L’altare della madonna

Anche questo altare è composto da un dossale e una mensa.
Dossale: costituito da quattro lesene di marmo bianco con capitello corinzio ed alto piedistallo che incorniciano la pala. Sottostante questa un composito fregio decorativo con tre teste di cherubini che emergono da un festone fiorito. Il dossale è semplicemente completato da piccole volute che poggiano sulla trabeazione di marmo rosso.
Mensa : presenta una cornice di marmo bianco con il paliotto a specchiature tondeggianti chiuse da volute arricchite da foglioline doviziosamente riprodotte tanto da accrescere l’insieme decorativo.
Si tratta di un altare “assemblato” con resti (di stili diversificati) recuperati

Ultima cena

E’ una rappresentazione classica del fatto.

Materiale: Olio su tela
Autore e datazione: Opera di ignoto pittore di Scuola Veneta sec, XVI / XVII
Provenienza: Non è mai stata citata né fra i dipinti della chiesa, né fra quelli inviati a Venezia dopo la distruzione. Ciò può far supporre che fosse un regalo/acquisto personale di Don Saccardo oppure che fosse un quadro già presente a Selva da secoli precedenti.

S. Silvestro battezza l’imperatore Costantino (pala dell’altar maggiore)

Papa Silvestro impartisce il battesimo all’imperatore ritratto come un semplice catecumeno che abbassa la testa per ricevere l’acqua battesimale. L’autorità papale è sottolineata dal corteo dei vescovi, mentre un solo legionario, dal rosso pennacchio, sottolinea la dignità imperiale.
La città di Roma è suggerita da una breve architettura che appare sulla destra.
L’arco della pala è occupato da un viluppo di nuvole dal quale emergono San Pietro e San Paolo.

Materiale: Olio su tela
Autore e datazione: La pala fu appositamente commissionata dalla Fabbriceria di Selva a Vincenzo Guarana nel 1791. Dall’anno precedente, il padre di Vincenzo, Jacopo Guarana, stava affrescando il soffitto della navata con “S. Silvestro in gloria con altri Santi” e quello del coro con “L’Esaltazione della S.Croce”della vecchia chiesa.

Sacra Famiglia con Santi

Vi sono raffigurati il Figlio tra la Vergine e S. Giuseppe sullo sfondo dorato del mondo celeste, mentre terrena è la sequenza sottostante con S. Luigi Gonzaga e S. Antonio da Padova che condividono l’adorazione al Bambino.

Materiale: Olio su tela
Autore e datazione: E’ un dipinto tipicamente devozionale di modesto valore artistico, commissionato da Alessandro Saccardo al pittore Giuseppe De Lorenzi, nel 1870.

Mosè bambino calpesta la corona del faraone

Vedi Esodo 2,9-12 – Lettera agli Ebrei 11,23-27

Il gesto del piccolo Mosè richiama un motivo ricorrente nella Bibbia: la rottura con un mondo di ricchezza e di potenza, che tende a svigorire e a rimuovere solidarietà e interessamento verso poveri e sfruttati.
La prima impressione che può suscitare è il suo carattere palesemente profano; a maggior ragione se paragonato con la religiosità evidente degli altri. Non vi è nulla di biblico quanto piuttosto il gusto di ostentazione del lusso, tipico della ricca società settecentesca veneziana. La dimora del Faraone è ripresa come illustrazione di un interno di un qualsiasi sontuoso palazzo veneziano. I personaggi e l’ambientazione comunicano la sostanza di una inconfutabile ricchezza: il Faraone veste un prezioso broccato d’oro reso ancora più lussuoso dalla rara pelliccia di ermellino, la principessa esibisce un costoso vestito ricamato a ricercati girali e arricchito con fili di perle e medaglione a pendenti. Valletto, cagnolino e suppellettili stanno lì a sottolineare la ricchezza dell’intera rappresentazione.

Materiale: Olio su tela
Autore e datazione: Opera di Gianantonio Guardi, prima metà sec.XVIII.

Mosè al cospetto del faraone

Vedi Esodo 7,8-13

Non è ancora uno dei celebri flagelli (o piaghe) d’Egitto, ma ne costituisce l’introduzione. G. Guardi mette in risalto l’identità dei due protagonisti e della loro azione: l’appassionata perorazione di Mosè, in difesa del suo popolo oppresso; la distanza fredda del re egiziano, sordo e ostinato di fronte alla richiesta di Israele, e di Dio medesimo in favore di esso.
Chi non ama gli altri come prossimo, e con animo fraterno, finisce sordo e insensibile anche nei confronti del Dio vivo e vero.
Si può essere allora tentati di sostituire Dio con il ricorso a maghi e magie: per legittimare il proprio potere su tutto. Ma la magia è il vuoto di Dio, e diventa causa di vuoto anche per l’animo umano.
Anche in questa tela si avverte il gusto settecentesco di attirare l’attenzione su una scena costretta in un interno. Gran parte dell’effetto della comunicazione che questo dipinto offre è affidato al codice visivo delle vesti e delle mani dei protagonisti: il Faraone indossa un regale mantello di porpora e la sua mano comanda la prova a Mosè, che avvolto in semplici vesti popolari, con la destra indica il serpente e con la sinistra rinvia alla potenza del suo Dio. Il mago egiziano, con una liscia veste bianca e mozzetta scura, esprime con la mano il terrore per il serpente che sta divorando gli altri.

Materiale: Olio su tela
Autore e datazione: Opera di Gianantonio Guardi, prima metà sec.XVIII

Mosè fa sgorgare acqua dalla roccia

Vedi Esodo 17,1-7  –  Vangelo di Giovanni 4, 14-15 / 7,37-39
Più volte, e con particolari descrittivi differenti, viene ricordato questo episodio nell’Antico Testamento: cf. Numeri 20, 1-13; Sapienza 11,1-14.
Una duplice dichiarazione di Gesù nel Vangelo secondo Giovanni ci avverte che l’acqua viva e dissetante è ormai donata da lui a quanti hanno sete di Dio, di senso profondo della vita.
La grande sete di Israele, al tempo del suo transito attraverso il deserto fa pensare ad altre vicende di sete e di “deserto”, che l’uomo di sempre si trova a aperimentare: talvolta da solo, altre volte associato ad altri compagni di viaggio. E l’interrogativo di un tempo ritorna ancora, esplicito o in fondo all’animo, con tono di sfida, ma molto più con accenti di trepidazione e di paura: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?”.
Mosè s’impone sulla scena nella sua duplice autorità di messaggero del volere divino e di condottiero del popolo d’Israele. La sua mano destra si protende verso l’acqua che zampilla dalla nuda roccia. L’acqua scroscia dalla rupe e va a formare un rigagnolo d’acqua potabile sul quale s’affolla il popolo stremato dalla sete. L’acqua, tanto invocata è raccolta con i palmi delle mani, con brocche bacili. Gli uomini bevono a sazietà, le donne dissetano i bambini.
Materiale: Olio su tela
Autore e datazione: opera di Francesco Guardi , metà sec XVIII

Vittoria di Giosuè sugli Amaleciti

Vedi Esodo 17, 8-14 | Giosuè 8, 18-26 | Vangelo di Matteo 17, 19-20

Più che la battaglia vera e propria, la pagina dell’ Esodo (17,8-14) mette in risalto il gesto delle mani alzate di Mosè sul monte: segno e garanzia di vittoria sugli Amaleciti (Giosuè 8, 18-26).
Il messaggio inteso ed espresso è evidente: non è l’uomo con la sua strategia e la sua forza a ottenere liberazione e vittoria nelle situazioni di avversità, bensì Dio invocato e coinvolto dall’uomo affinchè porti soccorso.
Vengono a proposito certi appelli di Gesù ai discepoli. Come nell’episodio accaduto dopo la trasfigurazione di Gesù sul monte. I discepoli devono allora confessare la loro impotenza nel guarire un fanciullo epilettico. Gesù lo restituisce sano al padre.
Quando si arriva a riconoscere la propria impotenza, si è ad un passo da interventi provvidenziali di Dio. Ma l’uomo deve tornare ad “alzare le mani” al cielo ed invocare il Signore.
Viene rappresentata la reale concitazione di una battaglia. E’ una scena epica, vi si legge il tumulto di una lotta cruenta. Vibranti sono le impressioni di movimento, ogni particolare è reso vivacemente animato dalla sapiente competizione fra pennellate di colori contrastanti. La cura di messa in risalto dei tratti salienti del racconto figurativo è affidata a ricercati colpi di luce che balzano agli occhi da sfondi più offuscati: pennellate minime sanno sagomare il contorno degli elmi, i chiaroscuri modellano le cuspidi degli scudi, sottili riflessi fanno brillare i fili delle lame delle spade, la luce solare tornisce i muscoli degli avambracci, dalla calca emergono il gonfiarsi dei vessilli e il sottostante imbizzarrirsi dei cavalli

Autore e datazione: Opera di Francesco Fontebasso, prima metà sec.XVIII

Mosè ed il serpente di bronzo

Vedi Numeri 21, 4-9 | Vangelo di Giovanni 3, 14-17 | Vangelo di Luca 23, 39-48

Siamo al tempo delle peregrinazioni di Israele nel deserto: allorchè Dio educava il suo popolo non senza ricorrere a certi “castighi”, per rimuovere la durezza di cuore e per poetarlo a maggior fiducia nel piano provvidenziale divino.
Il riferimento storico probabile di questa vicenda è alle così dette “miniere di Salomone”-nella località di Timna, poco a Nord di Eilat – dove gli antichi egiziani anzitutto, e poi Israele estraevano il rame. Vi si venerava come divinità il serpente, appunto di rame o di bronzo. A Gesrusalemme, il re di Ezechia ne fece rimuovere dal tempio l’immagine, perchè fatta oggetto di riti idolatrici.
Ebbene, purificato da ogni significato idolatrico o magico, proprio il simbolo del serpente di bronzo viene accostato al mistero del Cristo crocifisso.
Lo sguardo sul Crocifisso chiama a conversione e apre a speranza!
E’ una scena drammatica: il popolo in preda ai morsi dei serpenti velenosi supplica salvezza rivolgendosi al serpente di bronzo. Evidente appare il significato che accomuna il legno che sostiene il serpente al legno della croce di Cristo. Al serpente che risana: punta l’asta di Mosè; è rivolto lo sguardo estatico del sommo sacerdote; si tendono le braccia imploranti delle vittime del morso dei serpenti velenosi.

Autore e datazione: opera di Francesco Fontebasso, prima metà sec XVIII

Pellegrinaggio votivo

Pellegrinaggio votivo di Selva alla Madonna di Follina
Olio su tela
Ignoto pittore veneto, primi sec. XIX
Restauro per cura dell’Associazione “Selva Nostra”

Uccisione di San Pietro da Verona

Uccisione di San Pietro da Verona, frate domenicano
Olio su tela
Ignoto pittore veneto, fine sec. XVIII
Restauro per cura della Famiglia Girardi in memoria di Antonio Girardi

Affresco del semicatino dell’abside

Opera del prof. Bizzotto che lo dipinse nei primi anni ’30 ritraendo Cristo nella duplice simbologia di redentore e re accompagnato da quattro angeli che gli porgono gli emblemi della passione e della regalità.

Affresco sul soffitto del presbiterio

Sempre del medesimo autore, che ha ripreso il tema tradizionale del monogramma eucaristico contornato da cherubini.

Statua di S. Antonio da Padova

E’ una statua di gesso, probabilmente ottocentesca, presente già nella vecchia chiesa e ritrovata intatta dopo che la tromba d’aria l’aveva strappata dalla sua nicchia e depositata oltre il muro perimetrale della chiesa.

Statua della Madonna

E’ una statua di legno, opera dello scultore Moroder della Valgardena, acquistata da Don Andreatta in occasione delle celebrazioni che si svolsero in tutta Italia per l’anno mariano 1954.

Statua di S. Teresina

E’ un’immagine della santa nel suo letto di morte. La posizione è supina e la santa indossa il saio delle carmelitane. La statua fu acquistata da don Vanin che era particolarmente devoto a questa santa e alla cui protezione aveva affidato la costruzione della nuova chiesa.

Statue della facciata

Sui tre vertici del timpano sono state collocate le due statue di S. Silvestro e S. Nicolò, già sulla facciata della vecchia chiesa e provenienti dalla chiesa di S. Ubaldo e la grande croce che apparteneva alla chiesa di S. Bartolomeo (due distrutte chiese veneziane)..

Bassorilievi della facciata

Sulla fascia che precede il timpano sono stati disposti quattro grandi altorilievi, opere dello scultore Rebesco, con le figure degli Evangelisti con i simboli tipici che li contraddistinguono.

Le due acquesantiere alla porta principale

Sono composte da fasce decorative diversificatamente sagomate. Si possono distinguere un composito basamento ottagonale, il fusto a balaustro scannellato ed il bacile svasato a coppa.
Rivelano uno stile elegante e finezza di esecuzione.

Materiale: Marmo trovante ( vale a dire scolpite da un blocco unico ) con venature variegate
Autore e datazione: Ignoto scultore veneto del sec XVII
Provenienza: Dalla soppressa chiesa veneziana di S. Margherita, comperate per lire italiane quaranta

Fonte battesimale

E’ costituito da un fusto che sorregge la vasca . La vasca è stata chiusa da una copertura esagonale di legno a formelle scolpite e ricoperte da una velatura di gesso lavorato per renderle dello stesso stile.  Reca al culmine una statuetta di Cristo vittorioso.

Materiale: Marmo rosso di Verona
Autore e datazione: Ignoto veneto del sec XVI
Provenienza: E’ probabile che sia stato appositamente predisposto per la parrocchiale di Selva

Crocifisso

E’ un grande Cristo con tutte le caratteristiche della crocifissione steso sulla nuda croce. Probabilmente pertinente alla vecchia chiesa dove era collocato ( o forse questa è l’ultima immagine di una serie) su un suo proprio altare fatto costruire a Bassano, nel 1805.

Croce capitolare (astile)

Posseduta “ab immemorabili” come viene riportato nei documenti, dalla chiesa di Selva è frutto di un assemblaggio fra elementi del XIV sec. ed altri posteriori. Il recto presenta un crocifisso settecentesco con i simboli dei quattro evangelisti (XIV – XV sec.) sulle estremità trilobate dei bracci della croce. Sul verso corrispondono una figura papale (S. Silvestro?) .

Croce (astile)
La caratteristica è la parte finale dei bracci a motivo trilobato Poggia su un elaborato supporto decorato con fregi vegetali e due testine d’angelo. E’ tutta d’ottone trattato con un importante lavoro di niellatura.

Croce (da altare)
Croce di nero mogano con crocifisso d’avorio.

Cristo ligneo
E’ un Cristo, privo di braccia, iconograficamente riportabile ad una datazione secentesca.

Reliquiario della S. croce (grande)

E’un reliquiario d’argento sbalzato, riccamente lavorato, decorato ed arricchito con pietre preziose.
Entro la teca conserva un pezzo di Croce di notevoli dimensioni. Sul punto dell’incrocio una corona di spine, la lancia e la spugna. E’ riconducibile ad una ricercata tipologia settecentesca.

Reliquiario della S. Croce (piccolo)

Ha la forma di ostensorio, ma al centro reca una piccola reliquia della croce, tutto d’argento con un elaborato fregio sommitale.

Reliquiario multiplo

E’ un oggetto di notevolissimo pregio artistico per la lavorazione (molto difficoltosa) del cristallo di rocca. L’impiego di questo materiale, lavorato con abilità, gli dà una particolare eleganza ed una impronta stilistica che potrebbe condurre ad datazione secentesca.

Reliquiario dorato

Ha la forma di croce greca e la particolarità che lo contraddistingue è la ricca decorazione a piccole perle naturali e le quattro grosse turchesi.

Quattro busti di vescovi

Sono in lamina d’argento su supporto ligneo e rappresentano quattro santi vescovi.
Anche queste opere sono un acquisto di don Saccardo. Una curiosità: nei secoli passati questo tipo di reliquiario era una prerogativa esclusiva delle chiese cattedrali o abbaziali.

Ostensorio
Opera di oreficeria settecentesca (tutto d’argento) fu comprato da Giovanni Lazzari, commerciante trevigiano, al quale era stato ceduto dal generale francese Seurier (quindi frutto di una delle tante razzie dell’esercito francese nelle chiese venete). Costò 360 lire venete raccolte in una sola questua il 12 maggio 1801.

Due angeli di bronzo

Rappresentano ciò che resta di un acquisto a peso (a lire austriache 1.25 la libbra) di “bronzi” fatto a Venezia da Don Saccardo che comprendeva questi due , più altri due, una statua del Redentore e quelle di S. Pietro e S. Paolo, tutto venduto da altri parroci per far fronte a spese della parrocchia.
Sono di fattura squisita, posseggono una grazia di movimenti ed una ricercatezza di forme che li assegnano ad un ignoto scultore, sei/settecentesco, la cui abilità artistica appare in tutta la sua maestria.

Lavabo

La vasca poggia su un’inquadratura architettonica con basamento e lesene laterali. La parte superiore e divisa in tre settori separati e diversificatamente decorati. Termina con un timpano spezzato da cui s’innalza un ornamento frontale a volute.

Materiali: Pietra e marmo
Autore e datazione: Ignoto, sec XVII
Provenienza: Dalla distrutta chiesa di S. Stefano, a Murano

Stemma

E’ uno scudo col il profilo riccamente sagomato attraversato da un cartiglio con la scritta “Ave Maria” sorretto da due cherubini.
Materiali: Marmo bianco
Autore e datazione: Ignoto, sec XVII
Provenienza: Dalla dismessa cappella dei Priuli

Acquasantiera

Era la pila alla porta principale della vecchia chiesa. Il crollo l’ha spezzata in due frantumandone una parte e lasciando questa altra che è stata incassata alla parete. Presenta una forma leggermente schiacciata lavorata a larghe e sporgenti baccellature. Al di sopra di queste una fascia precede il bordo modanato della vasca.
Materiali: Alabastro
Autore e datazione: Ignoto, sec. XVII
Provenienza: Dalla vecchia chiesa

Altare

Anche questo è un altare “assemblato” con materiale di epoche diverse. Da segnalare le due eleganti e raffinate volute laterali di marmo bianco

Immacolata

E’ una piccola statua, (cm 87) tutta di marmo bianco di Carrara . La plasticità delle forme e degli atteggiamenti la assegnano al sec XVII. Acquistata da Don Saccardo a Venezia

Bassorilievo

Raffigura una santa monaca dell’ordine benedettino che sostiene con una mano la croce e con l’altra il libro della regola. Una cornice scolpita ad ovuli inquadra la figura. Il materiale (pietra) e la frontalità ieratica della scultura può ricondurla ad un ignoto scultore veneto del sec. XV / XVI. Proviene, probabilmente, dal distrutto monastero delle monache benedettine di S. Bernardo, a Murano.

Colonne

Sono le colonne dei quattro altari laterali della vecchia chiesa.
Le quattro di marmo nero di Varenna, brecciato bianco, dell’altare della Madonna (da S. Agnese di Venezia);
Le quattro di marmo rosso, brecciato bianco, dell’altare della Crocifissione (da S. Trinità di Venezia );
Le due e due di marmo brecciato grigio-bianco degli altari delle Vergini e di dei Santi (da S. Severo di Venezia).

Sacrofago di San Mansueto

Il corpo del Santo vescovo africano, Mansueto ( III sec d.C.), fu regalato a Don Saccardo dalla badessa del convento dei SS. Marco e Andrea di Murano dopo che ne era stata decretata la soppressione. Nel 1819, l’urna proveniente da Murano era stata posta sopra l’altare della Madonna. Nella ricostruita chiesa venne sistemata in cripta.
Nel 19 , un incidente tanto singolare quanto incredibile aveva causato la frantumazione sia dell’urna vitrea sia del corpo del Santo. Per la conservazione dei resti del corpo del Santo fu realizzato un sarcofago di marmo, di bello stile.

Capitel de Lavaio

La prima notizia storica scritta di questo “capitel” risale al 1423. Ora lo si vede nella sua veste esterna settecentesca e in quella interna anni ’60 totalmente da riportare a più consone forme rispettose dell’epoca e del buongusto. All’esterno, lateralmente, presenta due affreschi, uno con S. Cecilia (patrona di Lavaio) ancora leggibile e uno con S. Antonio, molto sciupato. All’interno corrispondono un S. Rocco e un S. Sebastiano spaventosamente deturpati da ridipinture riprovevoli. Anche la centrale, ennesima, statua della Madonna di Lourdes è completamente fuori luogo.
Il tutto dovrebbe essere risanato e riportato ad una condizione più dignitosa quando si completeranno i lavori di restauro per i quali è già stata messa in moto la macchina burocratica, frutto dell’accordo convenuto fra la famiglia proprietaria (De Lucchi) e l’Associazione “Selva Nostra”.

Capitel de S. Anna

E’ uno di quei tipici “capitei” che popolano le campagne venete, Ha dimensioni molto ridotte, conserva intatto un dipinto molto, molto popolare con la Vergine Assunta affiancata da S. Antonio da S. Rocco. Su una parete, un’immagine su tela di S. Anna è particolarmente venerata dalle mamme in attesa.
Festa: 26 Luglio.

Capitel del Sacro Cuore

E’ un “capitel” votivo fatto costruire da Valter Pozzebon nel 199… per grazia ricevuta.
E’ una semplice edicola che ospita un’immagine del Sacro Cuore di Gesù.
Festa: il Venerdì dopo il Corpus Domini.

L’oratorio di piazza

L’attuale, dedicato alla Madonna della Salute, è una costruzione del 1842. Il progettista del tempo, Giuseppe Legrenzi di Montebelluna, si dice abbia voluto edificare un piccolo pantheon con pronao e cupola, ma a voler dirla tutta la cupola si ispira più quella della Salute di Venezia che a quella del Pantheon. Ha pianta circolare e l’altare con i due angeli e la statua della Madonna della Salute proviene dalla demolita chiesa veneziana della SS. Trinità.
Precedentemente (dal 1642) c’era un altro oratorio dedicato alla Madonna di Loreto ed infatti è riportato che aveva la forma della Santa Casa di Loreto ed era chiamato “del Comun”, perché affidato alle cure dell’amministrazione pubblica e non a quelle della parrocchia, Ancor prima vi si venerava la Madonna della Neve. In ricordo di questa devozione a Vincenzo Guarana fu commissionata anche una tela che raffigurava, appunto, la Madonna della Neve, a tutt’ oggi ancora nei depositi della Soprintendenza.
Festa: 21 Novembre.

L’oratorio di campagna

La sua costruzione, sul punto di congiunzione del territorio della Campagna dai Beuni con quello della Campagna dai Tesi, per volere del parroco De Marinsky, cominciò negli ultimi anni dell’ ‘800 e fu completata nel 1905 quando venne benedetto. Ha una forma semplicissima con dei modesti richiami allo stile romanico, di moda in quegli anni, Fu ampliato a metà ‘900. E’ dedicato alla Madonna del Carmine e a S .Rocco. La statuina lignea della Madonna del Carmine è un regalo fatto da quel parroco al paese dopo averla ricevuta in eredità da uno suo zio, capitano della veneta marina che si tramandava l’avesse raccolta in mare aperto. La statuina ha un ricchissimo abbigliamento di inconfondibile foggia slava. Da segnalare la fisionomia della Vergine ed anche del Bambino per la dolcezza dei tratti. Può essere ricondotta ad una tipologia stilistica di fine secolo XVIII.
Festa: 16 Luglio 16Agosto.

Cappella della casa di riposo

E’ opera dell’architetto montebellunese Mario Bruno.
Lo stile è contemporaneo e vede l’alternarsi di muri di grossi ciottoli levigati del Piave con tratti di ampie vetrate trasparenti che si aprono sul verde del secolare parco.
L’altare, costituito dal tronco un di un ulivo toscano che sostiene la mensa, è opera del liutaio Mario Novelli e di Franco Girardi che lo realizzarono su indicazioni di Don Adelino Gatto.
Festa://

Cappella dell’asilo

Risale ai tempi in cui c’erano le suore. E’ un cappellina molto raccolta con una piccola pala con S. Anna che ammaestra la Madonna, opera di un ignoto pittore locale degli anni ’20.
Festa://

Cappella della purita’ (annessa a casa Girardi, via Pastro)

E’ dedicato alla Purificazione della Beata Vergine così come è inciso sull’architrave del portone.
Ha forme ricercate ed eleganti. E’ una costruzione di primissimo’700 e conserva tratti barocchi molto evidenti a partire dalla facciata con il finestrone lobato e il timpano ad arco ribassato.
L’interno presenta angolature concave, ed un alto cornicione che sostiene il soffitto a volta. L’ altare ha la tipica struttura con due colonne che sorreggono il classico timpano spezzato, il tutto di marmorino verde marezzato.
La pala di gusto raffinato e di mano abile è riconducibile ad un ignoto pittore di Scuola Veneta sec XVII / XVIII. Di primo ’800 il quadro con S. Luigi Gonzaga.
Festa: 2 Febbraio 21 Giugno.

Cappella della divina maternita’ (cappella ex villa Priuli, via dei Priuli)

E’ una costruzione settecentesca,abbastanza vasta che comprende anche un appropriato campanile di inconfondibile stile veneto. Dopo il crollo del tetto (1946?) fu abbandonata a se stessa. Le statue dell’altare furono portate in parrocchia, ma altri “pezzi”andarono dispersi. Gli attuali proprietari che hanno rilevato l’immobile negli anni ’90 hanno intrapreso l’opera di restauro che ora (2006) sembra però ad un punto di prolungata stasi. L’esterno è stato grandemente recuperato, ma l’interno è tutto da ristrutturare.
I proprietari hanno chiesto e ottenuto le tre statue, ma detengono tuttora la statua della Regina Pacis che stava nel vecchio Monumento ai Caduti, anch’esso distrutto dalla tromba d’aria del 24 Luglio 1930. La statua, danneggiata, fu, in quei frangenti, ricoverata in questa cappella. E’da sottolineare che essa non è una sua pertinenza , bensì è una proprietà dell’intero paese che con pubblica sottoscrizione l’acquistò nel 1921. Giacché tutto ciò è già stato comunicato a chi la detiene, buonsenso e raziocinio vorrebbero che ritornasse ad essere godibile dall’intero paese.
Da un punto di vista ecclesiastico porta il titolo citato, ma vi si è sempre stata festeggiata la Madonna del Rosario.
Festa: 7 Ottobre.

Cappella dell’ ausiliatrice (presso casa Campeol, via Anselmi)

Era la cappella della villa dei Tron demolita ad inizio ‘800. Fra le costruzioni (barchesse) sopravvissute si trova questa piccola cappella che conserva un pregevole altare ligneo di epoca barocca. Dedicata successivamente a S. Rocco, a S. Giuseppe, a S. Osvaldo fu definitivamente, ad inizi ‘900, dedicata alla Madonna Ausiliatrice. Fu tolta la tela che raffigurava S. Rocco ormai logora e del tutto impresentabile e nell’incavo dell’altare fu collocata una statua di Maria Ausiliatrice
Festa: 24 Maggio.

Pilastro delle cinque croci

Restaurato lo scorso anno (2005) per cura ed interessamento dell’Associazione “Selva Nostra”, è un manufatto dalla tipologia non molto diffusa. Un basamento i mattoni rossi su cui poggia un alto plinto, sempre di mattoni rossi, che sorregge una cuspide di pietra biancastra dove è inciso 1642.
(probabilmente questa è la data della posa in opera della cuspide, perché il manufatto dev’essere ben anteriore). Sulla punta della cuspide si innesta un’asta di ferro che termina con, appunto, cinque croci. Presenta tre nicchie nelle quali sono state colloca tre immagini (movibili), in sostituzione delle pitture del tutto cancellate dal tempo, dipinte da Elena di Giavera
Festa: 3 Maggio.

Grotta della Madonna di Lourdes ( Presa VII)

Portata a termine nel 1908 per conto ed interessamento di Giovanni Gastaldo. E’ interamente costruita con “crode” del Montello. E’ articolata su più piani: uno a livello del terreno con l’altare e le due statue della Vergine e di Bernardetta, uno sotterraneo dove, nel periodo natalizio, viene allestito un suggestivo presepio con statue di legno artisticamente scolpite da un artigiano della Valgardena, e uno superiore cui si accede tramite una scalinata esterna che termina con un’edico la della Madonna e da cui si gode il panorama di tutta la pianura sottostante.
Festa: 11 Febbraio 26 Dicembre.

Madonna degli Angeli

E’ una semplice pittura murale ottocentesca dipinta in un incavo quadrato della facciata di casa Corrà, via Castagnè. L’immagine presenta il fenomeno di caduta del colore per cui avrebbe bisogno di un restauro professionale che arresti l’usura del tempo e la protegga per il futuro.
Festa: 2^ Domenica di Giugno.

Quelli scomparsi

Paradossalmente delle quattro chiese originarie si sono perse le tracce: per S. Silvestro e S. Cecilia sono ancora localizzabili i siti, ma per S. Nicolò e S. Vitale sussiste una sola area di riferimento.
Sappiamo anche di una cappella dedicata a S. Pietro martire, sul bosco, a più riprese contesa con Giavera. Par di capire che per risolvere definitivamente la diatriba si risolse la faccenda “in casa” abbandonando l’oratorio sul bosco e dedicando a S. Pietro martire la chiesetta mortuaria del terzo cimitero di Selva che si trovava oltre l’attuale complesso residenziale denominato “S. Rita” in via L.Pastro.
Il “capitel de Castagnè” che si trovava sull’incrocio fra via Castagnè e via Schiavonesca Nuova fu
avventatamente abbattuto quando si fecero i lavori stradali per l’allargamento dell’incrocio.